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Era una mamma, una piccola mamma.
L'avevo definita così vedendola in tv in uno di quei programmi strappalacrime mentre mangiavo una mela dopo esser rientrata da una giornata di lavoro molto fruttuosa.
Ricordo che mi aveva preso così tanto la sua immagine che della mela avevo mangiato anche il torsolo senza che me ne accorgessi.
La chiamavo così, "la piccola mamma", perché sembrava che il dispiacere della perdita della figlia l'avesse rimpicciolita, sembrava essere stata schiacciata da un qualcosa di enorme e invisibile che lei continuava a portarsi sulle spalle senza che neppure se ne rendesse conto.
Eppure era lì, sopra di lei a sovrastarla e a ricordarle ogni secondo della sua vita che lei non sarebbe stata più una mamma dal momento in cui, quel maledetto giorno, un uomo le aveva strappato via la sua bambina.
Mi ero soffermata a pensare e a riflettere su quel momento, sul momento esatto in cui quell'uomo doveva essere riuscito a convincere la povera Julia a salire con lui in auto.
Chissà se in uno dei miei tanti giri lo avevo incontrato anch’io ed avevo fantasticato su di lui, chissà se avrebbe potuto convincere anche me a fidarmi e a salire in macchina.
Ora mi trovo qui, in mezzo ad una grande folla che circonda questa "piccola mamma" all'uscita dal tribunale nel giorno dell'udienza.
Sono tutti curiosi, tutti pronti a lasciare un loro commento di consolazione a sostegno della mammina o un insulto per quell'essere immondo che sconterà la sua pena con l'ergastolo.
Lei per un momento mi guarda, i nostri occhi si incontrano, mi fissa così, con uno sguardo vuoto, vitreo, ed io non riesco a capire se mi sta osservando e cosa sta pensando di me.
Forse crede che anch'io sia uno dei tanti ficcanaso che vuole sfiorare il dolore tramite le emozioni e le disgrazie degli altri.
Non è che io voglia proprio approfittare delle disgrazie altrui, io voglio comprenderle, voglio viverle, voglio sprofondare nel dolore puro per poi emergerne ancora una volta più forte e consapevole.
Mentre cerco di non perdere lo sguardo della piccola mamma, una giornalista si intrufola tra me e lei, ed io cerco di bloccarla ma ricevo prontamente una gomitata al fianco che mi mette fuori uso e mi fa mancare l'aria per un po'.
Lei mi guarda soddisfatta e, con aria da campionessa da serie A, continua imperterrita nel suo farsi spazio.
Quindi cedo, mi allontano di qualche metro, mi appoggio a un muretto e inizio a fantasticare su di lei, su questa bella biondina dalle tette grosse che mi ha spintonato e sul come fargliela pagare.
Ma presa dalla mia voglia di vendetta mi raddrizzo e, a spalle larghe e petto in fuori, faccio finta di correre velocemente assorta nei miei pensieri e tra la folla riesco a dare il ben servito a faccia d'angelo con un calcio nella caviglia e un tacco conficcato dritto nel suo dito mignolo del piede.
Farà bene a stare attenta la prossima volta…
La giornata è quasi appena cominciata, per lo meno per me che mi alzo tardi e che sono abituata ad essere servita e coccolata ogni giorno.
Certo, faccio un lavoro pesante io.
Non è facile fare l'attrice, non è facile stare ore ed ore a farsi bella e a provare e riprovare immobile decine di mise.
Per non parlare di quel regista che pretende di darmi ordini e di dire sempre la sua fino all'ultima battuta.
È così. Nelle serie tv, soprattutto nelle telenovelas, a volte il regista non conosce neanche il tuo nome. Ieri mi ha chiamato "TU CON GLI OCCHIALI" ed io non ho capito che si riferiva a me (sono anni che lavoriamo insieme e ancora non ricorda il mio nome) con il risultato di una bella ramanzina e di un mucchio di risate sul set alle mie spalle.
Che ignorante! Io con gli occhiali... neanche li porto, erano solo occhiali di scena...
Chiunque mi direbbe che sono solo una viziata presuntuosa e che fare l'attrice non è un lavoro ma un divertimento, ma di certo si deve amare il proprio lavoro, ed io lo amo.
Però mi sento molto stanca ed ogni giorno immedesimarmi nel mio personaggio mi pesa sempre più, soprattutto perché tra qualche tempo, se voglio andare avanti nella carriera, il mio lavoro richiederà un cambiamento abbastanza radicale. Voglio ottenere un ruolo principale in una fiction di due puntate in prima serata sulla tv nazionale.
Pare che addirittura si tratti di una coproduzione italo americana.
Il problema è che non so perché alla fine riesco sempre a farmi odiare e ad inimicarmi tutti.
Eppure sono una persona sensibile e profonda io.
Solo perché tendo a farmi rispettare e odio le ingiustizie, vengo considerata una stronzetta nervosa e viziata.
Lascio a casa Margot, la mia cagnolina color neve: è una maltesina e non ama troppo la confusione, quindi decido di non portarla al centro commerciale con me in uno dei miei tanti giri clandestini e fantasiosi tra la folla.
La produzione mi ha dato una settimana di riposo, due giorni in più rispetto a quelli che mi sarebbero toccati visto che è da tre settimane che lavoro quasi ogni giorno e che ieri mi sono quasi rotta un braccio per evitare che il mio vomito al caffè finisse dritto sopra l'iPad del regista.
Per fortuna non è successo, gli è solo caduto sulla sedia dove si sarebbe poi seduto il minuto dopo, ma lui non se n'è accorto. Si è seduto comodamente e ha continuato a sentirsi il re del mondo sul suo trono.
Poverino, nulla a che fare però con il mio malessere.
Non solo ho vomitato, ma mi sono pure fatta un male da morire al polso che ho sbattuto violentemente nel bloccare il monitor che stava per cadere a terra.
Mia mamma diceva sempre che sono un po' sbadata, in realtà è solo che a volte mi lascio andare e combino qualche piccolo guaio in giro.
Ma son sempre cose da niente o cose che forse a volte la gente merita che io gli combini.
Cammino sotto i balconi della mia città, Roma diventa calda in alcuni mesi dell'anno, a volte caldissima, ed io ho dimenticato di portare con me la bottiglietta d'acqua che mi accompagna nelle mie "missioni", così cammino sotto i balconi e cerco disperatamente con lo sguardo una fontanella o un bar dove entrare a bere qualcosa di fresco.
E poi, diciamo la verità, penso di meritare un po' di riposo e una bella spremuta d'arancia rossa.
Mi siedo al tavolino di un bar, uno di quei tavoli di plastica che ti spacciano per pulito dopo una giornata di gelati e cocktail che gocciolando lo impastano.
Ed ecco arrivare il cameriere, con la sua pezza gialla consunta, che con un gesto frettoloso e sicuro di sé mi vorrebbe convincere che il tavolo sarà pulito e brillante in pochi secondi.
Così ordino una spremuta d'arancia ma, subito dopo una veloce ma intensa riflessione, decido di cambiare la salutare e sana bevanda con un bel gelato al cioccolato con panna montata.
Cosa vuoi che sia un po' di panna, mi dico, tanto non credo di perdere la mia forma o di uscire dal giro della tv per qualche grammo di troppo.
Il cameriere mi guarda con aria di chi ha già visto la stessa scena mille volte e con aria rassegnata prende l'ordinazione con una specie di pennino su una macchinetta che di certo deve essere collegata ad un computer interno.
Noto subito che ha una macchia sulla giacca blu, semi nascosta dal cravattino della divisa, e con mio grande orrore noto pure che sta sudando.
Ad ogni modo ho troppa voglia del gelato e di certo non mi arrenderò per una macchia sulla giacca e il viso sudaticcio di quest'uomo, e poi... mica lo devo mangiare con lui.
Certo, un po' di schifo mi fa. Ma perché non fanno attenzione nei grandi bar centrali prima di dare impiego al personale?
Mentre sono assorta nelle mie riflessioni il cameriere, Arturo - è così che c'è scritto sulla targhetta che è attaccata come una spilla sulla giacca - arriva con il mio fantastico gelato in coppa di vetro e nel porgermelo vedo che mi guarda negli occhi e mi fa un gran sorriso smagliante.
Deve essere giovane, anche se il suo aspetto dimostra l'età di un uomo maturo che ha vissuto di stenti.
Mi sento quasi in colpa per aver pensato che mi fa un po' di schifo, forse tutto sommato è una brava persona e poi magari, chissà…, sarà anche un tipo pulito.
Il fatto è che di certo sarà affaticato perché le ordinazioni fioccano e la gente che aspetta ai tavoli si lamenta.
Decido che potrei seguirlo per saperne di più su di lui.
Può essere un modo per scacciare i sensi di colpa che provo nei suoi confronti.
A questo punto sono costretta a ricambiare il sorriso e ad iniziare un dialogo rendendomi piacevole e simpatica.
Lo ringrazio per la sua gentilezza e per la velocità con cui ha soddisfatto le mie richieste.
Poi, facendo finta di non essere della zona, gli chiedo se sa indicarmi la prima stazione metro vicino a noi.
Mi risponde noncurante che lui viene in auto e che non può quindi esaudire la mia richiesta di informazioni.
Mi è andata buca.
Certo, ma non sono quel tipo di persona che si arrende facilmente.
Sono convinta che Arturo deve esser stato lasciato da poco, da una bella donna sì, ma forse troppo facile di costumi.
Lui se ne era innamorato davvero e avrebbe voluto partire, scappare via con lei per costruire una vita nuova all'estero, magari per aprire un bel chioschetto in riva al mare in Florida... no, forse in Florida no, ma il Messico poteva andare più che bene.
Uno di quei chioschetti tipo siciliani dove ti servono granita vera e bevande al mandarino.
Mentre sono assorta ancora nei miei pensieri, squilla il telefonino.
È la mia agente.
Sono terrorizzata, di certo si vorrà lamentare con me per dirmi che, dopo che sono andata via, il regista si è alzato dalla sedia ed era zuppo del mio vomito.
Forse qualcuno aveva visto tutto ancora prima che lui si sedesse e aveva preferito tacere per dargli il ben servito sfruttando però i miei meriti.
Decido di non rispondere, tanto dovrò rientrare tra una settimana e non voglio essere disturbata durante i miei importanti giri di perlustrazione.
Chiedo il conto ad Arturo cercandolo con lo sguardo.
Ed è in quel momento che mi accorgo che una donna sta parlando in disparte con lui.
Lui sembra un po' nervoso, si preoccupa che il capo sala lo richiami per tornare di corsa al lavoro.
Penso che la donna è la famosa tizia poco seria di cui fantasticavo prima.
Ha i capelli biondissimi tenuti da una grossa coda di cavallo (sarà una parrucca?), una minigonna cortissima e indossa un top con scollatura mozzafiato. Ci ho proprio azzeccato!
Mi precipito di corsa alla cassa e pago la mia consumazione. Otto euro. Vedo che la tizia mozzafiato sta per andare via e dà un veloce bacio sulla guancia al cameriere.
Fai la furba, amica, eh? Prendere in giro un pover'uomo che lavora tutto il giorno e che cerca di essere cordiale nonostante il suo sudore.
Ti sistemo io, penso.
Mi affretto a seguirla, ma qualcosa cattura immediatamente la mia attenzione.
È Delia.
Eravamo amiche una volta.
O almeno, così credevo. La credevo io un'amica, fino a quando lei non si è innamorata di quello che ai tempi era il mio ragazzo.
In un giorno di riprese li avevo invitati tutti e due sul set e avevano fatto amicizia.
A quei tempi io vivevo con Luke e spesso tornavo tardi.
Delia era molto disponibile (forse troppo) e a volte passava da casa per portare a spasso la mia Margot e dare una mano e un po' di aiuto a Luke nelle faccende di vita ordinaria.
Le ero grata e la consideravo quasi come una sorella.
Un giorno decisi di fare la tipica sorpresa a Luke.
Sarei rientrata prima. Era il nostro anniversario, tre anni di vita insieme.
Per pura casualità non avevo coinvolto Delia nell'organizzazione di ciò che poi si sarebbe rivelata una "cattiva idea".
Avevo comprato una bottiglia di champagne, una piantina e dei cioccolatini, che non devono mancare mai in un anniversario.
Mi finì in ospedale con una indigestione bella e buona.
Stavano festeggiando “loro” il MIO anniversario, a letto, sotto le lenzuola.
Nel “mio” letto.
Avevo preso Delia per i capelli e dato un calcio a Luke piangendo e urlando e nella foga avevo divorato la scatola di cioccolatini sotto i loro occhi per far loro un dispetto. Con tutta la carta...
Mal di pancia, senza un amore e senza la mia migliore amica.
Tornando con i piedi per terra, decido di non seguire né la bionda né Delia, non ne vale la pena.
Questa giornata sembra già un disastro, la donna mozzafiato è scomparsa dalla mia vista e io sono entrata in ansia al pensiero di dover prima o poi richiamare la mia agente.
Però è una splendida mattinata di sole oggi a Roma, è mezzogiorno e decido di fare una passeggiata a piedi.
Mi allontano da una via centralissima e affollata.
Mi guardo intorno. Rumori, sguardi sfuggenti.
Sembriamo delle macchine a volte gli esseri umani. Sembriamo programmati, tutti intenti a fare qualcosa che reputiamo importantissimo e urgente.
Una signora con gli occhiali si affaccia ad una finestra, sta fumando con aria furtiva e sembra molto indaffarata.
Fuma la sua sigaretta con tutto il fiato che si ritrova, sembra volersi sbrigare. Sarà di certo una segretaria di qualche ufficio commerciale e non le è permesso fumare dentro. Sono sicura che il suo capo fuma comodamente in poltrona nel suo studio come e quando vuole.
Il suo fumo passivo non nuoce ai dipendenti.
Ma quello della sua segretaria sì.
Continuo la mia passeggiata sotto i balconi e vedo passare il bus urbano che mi sta più a cuore di tutti.
Il numero trenta.
Mi ha sempre assistito nella vita il numero trenta.
Quando vivevo con Luke, abitavamo in via Manzoni al numero trenta.
Il trenta era l'autobus che ogni giorno dalle scuole superiori mi portava a casa e trenta era il giorno di arrivo dall'estero della mia cagnolina. La mia Margot.
Per non parlare del fatto che disgraziatamente anche il mio anniversario con Luke cadeva il trenta marzo.
Ora sono alla soglia dei trent'anni e credo che sia giunto il momento di sentirmi realizzata nella vita.
Insomma non ho un lavoro ricco di soddisfazioni se non economiche.
Vorrei recitare in un ruolo importante e devo a tutti i costi avere la parte principale in prima serata nella mini serie di "Cinderella in love".
Non mi piace troppo saltare da un prodotto all'altro negli spot pubblicitari.
Un giorno sono costretta a parlare di addome gonfio ed un altro di assorbenti interni per donne in carriera e dinamiche.
A volte mi chiedo se la mia agente non me lo faccia apposta.
Lei non mette mai i mezzi per mettere in risalto il mio corpo o i lineamenti del viso con i miei splendidi occhi verdi.
Solo una volta mi ha procurato un piccolo spot di una famosa marca di occhiali da sole, ma naturalmente non ho tolto gli occhiali nemmeno un secondo.
Niente bel corpo in vista e niente occhi verdi.
Però alla brunetta che era in scena con me l'avevano fatta uscire dall'acqua per poi sdraiarsi in riva al mare non prima di aver indossato i suoi splendidi occhiali da sole della stessa marca ma di un modello leggermente diverso.
Prendo al volo il bus numero trenta.
Riconosco immediatamente l'autista.
Sembra invecchiato.
Roma dall'autobus è sempre una nuova emozione.
Mi piace guardare dal finestrino la vita che si svolge dietro un vetro mentre la mia vita scorre da spettatrice.
Mi chiedo dove vanno tutte quelle persone.
Sicuramente avranno quasi tutti qualcuno che a casa li sta aspettando e questa sera in tantissimi faranno ritorno.
Certo.
Siamo fermi ad un semaforo e un uomo africano si affretta a pulire i vetri di una vecchia Polo Volkswagen nera.
L'autista è una donna molto anziana che urla di lasciarla in pace e caccia via con cattive maniere l'africano. Provo un impeto di rabbia nel vedere quest'uomo che insiste e continua a pulire il vetro della donna e che dopo aver finito tamburella rumorosamente sul parabrezza dell'anziana.
Vorrei quasi scendere in difesa della donna ma il bus riparte.
Peccato per la troppa confusione, ma la città oggi sembra proprio piena di vita e di colori.
Ci sono facce di ogni tipo in giro, gente allegra, coppiette, bambini che corrono in cerchio facendo la spola da un genitore all'altro mentre stanno in fila per i musei.
Ma quanti turisti!
Sì, sembra proprio che la mia settimana di riposo sia iniziata alla grande.
Sale una donna carica di sacchi della spesa, cammina zoppicando e sale le scale a fatica.
Ha ai piedi delle scarpe vecchie nere e sembrano quelle raffigurate quando si disegna la befana e - cosa terribile! - ha dei gambaletti che le arrivano al polpaccio, insalsicciandola per bene.
Le cedo il posto con un sorriso, lei mi guarda e si siede.
Neanche un grazie, neanche un cenno di riconoscenza.
Però, che maleducata! Mica ero costretta a darle la mia comodissima sedia.
La guardo bene, ha le mani affaticate e le unghie sporche.
I capelli sono quasi tutti bianchi tenuti su da un cerchietto di plastica da pochi centesimi comprato alla fiera sotto casa.
Ha qualcosa di familiare, le spalle piccole, sembra indifesa.
Chissà quali gesti di allegria ha mai compiuto nella sua vita e quando ha smesso di compierli nuovamente.
Forse è nata già così.
Ci sono persone che sembrano nascere già con la sfortuna nel loro DNA.
Io per fortuna sto bene, sono bella, e mi reputo anche una persona intelligentissima.
Però in realtà non posso darla a bere proprio a nessuno, non sono poi così felice neanche io, soprattutto oggi che rivedere Delia mi ha psicologicamente distrutta.
Vengo presa da un attacco di nostalgia: a quest'ora avremmo avuto un bambino con Luke o per lo meno avremmo avuto tutta una serie di minuscoli Maltesi per casa.
Mi chiedo se loro stanno ancora insieme e cosa di me sia rimasto in Luke.
Cosa nel suo corpo, cosa nelle sue movenze e nelle sue espressioni.
Quanta parte di Luke è ancora mia e quanta ne rimarrà per sempre.
Quando l'ho conosciuto non mangiavo ricci di mare, mi davano la nausea, ma poi, quando abbiamo iniziato a frequentarci, uno dei primissimi giorni, un amico comune ci portò in motoscafo con una piccola comitiva.
Ed è lì che cominciai a mangiare ricci.
Luke mi aveva costretto ad assaggiarli a causa di una scommessa che avevamo fatto.
Aveva scommesso con me che se fosse riuscito a nuotare da una boa all'altra senza fermarsi e a prendere due ricci con le mani sulla costa vicina e a portarmeli nuotando e senza pungersi, allora io avrei dovuto onorare il suo dono.
Da allora vado matta per i ricci e non perdo occasione di mangiarli soprattutto con le linguine.
Questa è una parte di Luke rimasta con me.
Quasi quasi faccio un salto a casa sua.
Abitavamo vicini da bambini ma non ci eravamo mai frequentati né mai salutati.
E poi ho una gran nostalgia di quella casa, della casa dove abitavo da bambina.
Mentre decido di scendere nel mio vecchio quartiere, squilla di nuovo il telefono, è ancora lei, la mia agente.
Lo squillo si fa sempre più insistente e mi martella la testa.
Decido ancora di non rispondere, tutti mi guardano con aria di rimprovero e la loro espressione sembra intimarmi a farlo.
Rifiuto la chiamata ma faccio finta di aver risposto e parlo ad alta voce e compiaciuta per farmi sentire e far capire ai miei osservatori che sto parlando con la mia migliore amica di cose allegre ed eccitanti.
Chiudo la chiamata dicendole che sto scendendo dal bus per raggiungerla.
Riesco a farmi spazio tra la folla e finalmente scendo dall'autobus, non è bello sentirsi scrutata così.
Il mio vecchio quartiere sembra quasi lo stesso.
Ci sono dei bellissimi alberi sul viale che attraversa la via di casa, loro sono sempre lì, sempre verdi e per vivere necessitano di poco.
Ero bambina quando andavo a scuola elementare a piedi e quella strada mi provoca una fitta allo stomaco.
Sono nati dei palazzi qua e là e quello che prima era uno splendido prato per i miei pic-nic ora è cemento.
I negozietti sono quasi tutti uguali, tranne un paio che si sono a modo loro rimodernati.
L'uomo della bottega dove facevo ogni giorno il panino è sempre li, e mentre passo sbircio dentro per cogliere i suoi cambiamenti.
Sembra molto vecchio e il suo viso ha mantenuto un sorriso stampato da commerciante imbonitore.
Scherza ancora con le clienti che approfittano di qualche offerta da prodotti quasi in scadenza e tanto si è calato nella parte che ormai ha finito per diventare davvero cordiale e simpatico.
Mi chiedo se quest'uomo avesse cambiato mestiere, se sarebbe stato ugualmente un comico mancato.
Arrivo finalmente all'incrocio della mia strada: il numero tanto per cambiare è il 30.
È una palazzina di soli quattro piani e mi accorgo da subito che hanno cambiato il portone.
Anzi, a guardare bene, hanno anche pitturato l'esterno.
Entro di soppiatto, e mi infilo nel piccolo corridoio che dall'androne porta ai garage.
Devo stare attenta a non farmi beccare da nessuno, se no sono davvero guai.
Non riuscirei mai a dare spiegazioni e a trovare una scusa veloce sulle motivazioni per cui oggi mi trovo qui, nascosta tra le vite degli altri.
Attorno c'è silenzio, non si sente ascensore, non si sentono rumori di auto, così pian pianino mi avvicino alle buche delle lettere.
La mia ex buca della posta è piena di buste e cartacce pubblicitarie, sembra proprio che qualcuno non prenda la posta già da un bel po'.
Sono sedici. Quattro famiglie per piano.
Io stavo al terzo.
Così inizio a leggere i cognomi per cercare di capire e ricordare chi tra questi stava già qui venti anni fa e chi di loro sa cosa è accaduto alla mia famiglia.
Leggo velocemente da un cognome all'altro e vengo sorpresa da un forte rumore di piedi che scendono le scale.
Corro nuovamente e mi nascondo nel piccolo corridoio, zitta ed immobile.
Sono due ragazzini, stanno ridendo e scherzando su chi arriva prima al pian terreno.
Prego in silenzio che non arrivino al garage ed è proprio in quel momento che mi squilla nuovamente il telefono.
I ragazzini smettono di strattonarsi e fanno silenzio pensando ad un rimprovero di qualcuno del palazzo che li conosce, e si girano in cerca del trillo del telefono.
Esco con noncuranza dal mio nascondiglio e a testa alta, come se niente fosse e come se mi spettasse di diritto occupare quegli spazi, mi dirigo verso l'uscita.
È ancora Marta, maledizione a lei.
Stavolta rispondo.
Che cazzo fai, mi urla Marta, ho provato a chiamarti mille volte.
In realtà solo due ribatto io, e le dico che sto portando avanti un lavoro di preparazione importantissimo per la mia carriera di attrice.
Sento che mi risponde con un ghigno di derisione.
Non potrebbe mai capire quanto sia necessario per me tuffarmi nella vita reale, nella strada, negli sguardi della gente e quindi le invento che sto leggendo dei testi di recitazione teatrale e cinematografica.
Lei si calma e mi dice che una settimana di riposo è troppo e che avrebbe un lavoretto per me.
Per fortuna niente a che fare con il mio vomito e con quel cretino del regista.
Le chiedo di cosa si tratta.
La mia agente è una donna risoluta e molto in gamba, anche se a volte la sicurezza che ha della sua persona la rende estremamente invadente e indelicata.
Mi propone uno spot televisivo.
Purtroppo il prodotto è una pomata antidolorifica per la schiena, ma la cosa interessante è che è ben pagato e soprattutto che le riprese saranno negli studi televisivi e cinematografici più grandi di Roma, gli stessi della produzione di “Cinderella in love”. Questo aumenterebbe le possibilità di farsi conoscere e di avere un provino prima possibile.
Rifletto un attimo sulla proposta, e ancora prima di risponderle lei mi dice di tenermi libera perché potrebbe accadere, per motivi tecnici, che lo spot si giri da un momento all'altro, forse anche domani o dopodomani.
Parlando con un tono di voce più alto ancora, prima di staccare la chiamata, e non permettendo alcun intervento da parte mia, mi ricorda infine che per i rigurgiti di ansia da prestazione esistono i cessi e non le sedie.
Che figura di merda!
«Soprattutto se queste sedie sono di uomini da cui dipende la tua vita lavorativa» aggiunge poi in tono persuasivo.
Da cui dipende la mia vita lavorativa, ha detto proprio così.
Se non fosse che voglio a tutti i costi sfondare sugli schermi televisivi in prima serata, manderei tutto a quel paese.
Io dipendere da altri!
Figuriamoci... altri che a loro volta leccano i piedi a qualcun altro superiore a loro.
E poi si sentono frustrati.
Inizio a pensare che per oggi ne ho avuto abbastanza e vorrei rientrare a casa, ho preso caldo e sono tutta sudata, ma se davvero il provino dovesse esser subito mi devo preparare, voglio che quando interpreterò Cenerentola, la gente veda in me il volto di chi ha sofferto nell'infanzia, il volto di chi ha conosciuto la povertà e la disgrazia.
È trascorso qualche minuto, così decido di rientrare nel portone del mio vecchio palazzo, salire su al quarto piano, aspettare un po' lì e poi ridiscendere al terzo.
Casa nostra è ancora là, in realtà però mia mamma la diede in vendita molti anni fa ad una coppia che dovrebbe ormai avere almeno settanta anni circa.
E dovrebbero avere un figlio di circa venticinque o trent'anni.
Dalla porta che collega ad un grosso tubo dove si fanno scendere i sacchi per la spazzatura ci si può affacciare e scavalcare dritti sul balcone che porta alla cucina dell'appartamento.
Da bambine, con le mie amiche del palazzo lo facevamo sempre.
Ci piaceva scavalcare e far spaventare mia mamma che era intenta in cucina a preparare la cena o a lavare i piatti.
Era pericolosissimo, ma ormai per noi era come saltare una pozzanghera d'acqua e non bastavano le urla o i richiami delle nostre madri, per farci smettere.
Mi prendo di coraggio e decido di farlo, voglio scavalcare, l'adrenalina percorre tutto il mio corpo, dal mignolo del piede fino all'ultimo capello riccio.
Sembra tutto spento, niente tv, niente voci, niente luci accese.
Potrebbero essere in vacanza, infatti la buca delle lettere sotto era piena.
Così mi prendo di coraggio e salto, la serranda della cucina è abbassata a tre quarti, ma la porta del balcone è stata lasciata socchiusa per far in modo che la casa prenda un po' d'aria.
Lo facevamo spesso anche noi.
Sono arrivata, mi guardo le spalle controllando che non ci sia nessuno a guardare dalle altre finestre che sporgono sul cortiletto interno e sollevo leggermente la serranda per farmi spazio ed entrare carponi.
Il cuore mi batte all'impazzata.
Sono dentro.
L'aria che respiro sa di vecchio, di mobili poco usati che stanno lì fermi da un'eternità e aperti solo in occasione di qualche raro ospite cui offrire di tanto in tanto un cioccolatino.
C'è solo la penombra che arriva dal balcone e i cambiamenti che il tempo ha sui miei ricordi non mi permettono di camminare al buio da subito.
È una grande emozione, le mattonelle sono le stesse, rosa con puntini a rilievo, le riconosco al tatto e, man mano che la mia vista si acuisce nel buio, mi rendo conto che i cambiamenti sono stati notevoli.
Tocco con le mani le spalle di un divano, sembra impolverato.
Mi alzo in piedi.
Accanto al divano c'è una piccola abat-jour che prontamente accendo per l'ansia di guardarmi intorno.
Stavolta ho proprio esagerato, ho esagerato!
La cucina è in legno, forse ciliegio, il tavolo è rotondo e ci sono quattro sedie uguali intorno ed una quinta che è diversa.
Sembra una sedia molto più larga delle altre ed è di uno strano materiale che sembra acciaio.
Sui mobili ci sono tantissime fotografie, ne prendo alcune in mano.
Una raffigura la coppia ai tempi in cui mia madre affittò loro la casa dopo il nostro scandalo.
La coppia stringe le mani al loro bambino che sta in mezzo sorridente.
Lo sfondo è del mare, sono in vacanza.
Sembra una famiglia molto unita, sembrano essere in un posto tropicale, forse è la Florida e chi ha scattato la fotografia ha preferito dare risalto al panorama anziché ai personaggi in questione, infatti i genitori sono accovacciati e del bambino si vedono solo parte del busto, la testa e le manine che escono dal basso per stringere le mani dei genitori.
C'è un'altra foto che mi colpisce, raffigura la madre e il suo bambino in primissimo piano. La mamma è curva su di lui e lo bacia dolcemente sulla testa.
Deve averla scattata il padre perché quelle della fotografia sembrano le pareti di questa casa e l’immagine mi trasmette un grande amore.
Lascio perdere le foto e faccio un giro di perlustrazione veloce per accertarmi che in casa non ci sia qualcuno che stia riposando o facendo un bel bagno.
Sembra tutto in ordine, ripercorro il corridoio che dalla cucina porta a quella che era la zona notte.
Ogni cosa è trattata con cura e chi ci vive sembra essere maniaco dell'ordine.
Non un vestito fuori posto, non una cartaccia per terra.
Entro in bagno e approfitto per darmi una rinfrescata al viso e fare la pipì.
Appena vedo un wc, scatta qualcosa in me che mi costringe inesorabile a sedermi e ad approfittarne.
Prendo dalla borsa la mia pochette da trucco e mi inciprio il viso.
Metto anche del lucidalabbra e dell'ombretto.
Se dovesse chiamare all'improvviso Marta, devo almeno esser presentabile e non sembrare uscita da una guerra.
Ormai sono certa che a casa non ci sia nessuno e sento dentro di me una strana calma interiore.
È un fantastico tuffo nei ricordi.
Si è fatto tardi, mi convinco di poter tornare tra qualche giorno, di certo sono in vacanza: è piena estate e solo gente che si occupa di cinema come me può lavorare a fine luglio!
Cerco di sbrigarmi, così ricompio i gesti al contrario, spengo la luce ed esco nuovamente lasciando la porta e la serranda esattamente all'altezza in cui l'ho trovata.
Via di fuga libera, sono fuori.
Sono elettrizzata all'idea di quello che ho appena fatto, mi accorgo che saltello per strada e la gente mi guarda quasi divertita.

Meglio prendere un Taxi, la mia Margot mi starà di certo aspettando con ansia per la pappa e per la passeggiata di metà giornata.

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